L'astuzia dell'Anima - Giorgio Antonelli

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L' astuzia dell'anima: peccare per non sapere



(in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010)



Estratto


L’orgoglio, il peccato per eccellenza della tradizione teologica cristiana, recita un ruolo non indifferente anche nella teologia gnostica. E, però, non è originante l’orgoglio. L’orgoglio è la proiezione di un altro, più originario, peccato, il cui nome è agnosìa, cioè inconsapevolezza, ignoranza, non sapere.ù

A partire dall’agnosìa gli altri peccati valgono altrettante ricostituzioni regressive della Persona. Sono digradanti maschere attraverso le quali, dall’origine, l’agnosìa proietta. È lei il peccato da espiare, la radice di ogni male. E in questo stato non si trova soltanto l’uomo, ma anche il Dio mancante di coscienza. A ridosso di questi assunti Jung chiede al lettore di non scandalizzarsi se la sua esposizione suona come un mito gnostico. Naturalmente, quando si tratta di stabilire quale sia il fattore che genera la proiezione, lo nominiamo nell’Anima, cioè nell’inconscio (nell’agnosìa) in quanto rappresentato dall’Anima.

Se siamo al mondo, tuttavia, è perché dobbiamo fare coscienza. Non so trovare altro senso alla nostra gettatezza. Il significato del fare coscienza è però oscuro e approda, sulla scia degli gnostici, a un paradosso esiziale. Non potrebbe del resto essere altrimenti, se pensiamo che è proprio la personalità conscia dell’Io il luogo nel quale, con Jung, va individuato il nostro punto più oscuro. In ottica archetipica ciò appare perfettamente comprensibile. La personalità conscia dell’Io è una fantasia, un’immagine, una proiezione della sizigia Animus-Anima. Dalla parte dell’Animus emana l’Io. Dalla parte dell’Anima, attraverso l’istinto di riflessione, viene pro-dotta la coscienza. Dalla sizigia Animus-Anima deriva però anche uno degli assunti più paradossali, e inquietanti, della psicologia analitica. Che la coscienza proceda, via riflessione, dall’Anima non toglie che sia la stessa Anima a pro-durre inconscietà, agnosìa. L’Anima pro-duce tanto coscienza quanto inconscietà. E, corrispondentemente, inevitabilmente, angoscia.

Pro-durre inconscietà e angoscia appare una necessità dell’Anima. Svolge qui l’Anima la sua funzione religiosa: fare dell’uomo l’oggetto di un esperimento divino. L’Io è un riflesso, una proiezione dell’inconscietà e, dunque, dell’agnosìa che adombra il tutto. Non sorprende che Jung abbia individuato nella personalità conscia dell’Io il nostro punto più oscuro. Quando Freud afferma che l’Io è la sede dell’angoscia, coglie soltanto l’ultimo episodio di una sequenza archetipica di proiezioni e ricostituzioni regressive. Quello che Freud non vede, e che invece vede Jung, è l’antinomico volto dell’Anima.

All’oscurità dell’Io approda come al suo inferiore vertice il dramma divino di cui si fa questione in Risposta a Giobbe, dramma cui Jung pensa anche sulle orme degli gnostici valentiniani e che il cabalista Luria chiama rottura dei vasi. Qualcosa si scinde dentro la divinità, un eone (Sophia) fuoriesce dal pleroma (l’originaria pienezza) a causa dell’orgoglio che proietta su di lei l’ignoranza nei confronti del Padre. Dalla sua passione, fatta d’ignoranza, dolore, timore e stupore, trae origine la materia. Quando il demiurgo crea il mondo e al mondo accede l’uomo, il dramma divino ha ormai impregnato di sé i cieli e la terra. Per questo ritiene risibile, Jung, l’angoscia provata dall’uomo. È piuttosto l’angoscia a provare l’uomo. L’angoscia, che è prima dell’uomo, lo inchioda a quell’esperimento divino la cui posta in gioco è la ricomposizione dell’originaria scissione. Se Heidegger è arrivato a sostenere che solo un dio può salvare l’uomo, Jung ritiene, al contrario, sulla scia di Luria, che solo l’uomo può salvare Dio.

 
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