Insetting - Giorgio Antonelli

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Intuizione, intenzione, inspirazione, insetting



(in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009)



Estratto

Cos’è il setting analitico? Un luogo di inizio gioco, un attraversamento per fantasmi, uno spazio di non due, l’inizio di un’opera d’arte. Un crearsi, l’assistere a un crearsi, il patire un crearsi, l’esser presenti a un’origine. Il setting è un mondo, ma la sua terra, il fuoco del suo fuoco, il suo gaudente morire, la sua resurrezione minore, è l’insetting.

L’insetting è il quadrato, è il quaternio, il nonluogo, l’atopìa. L’immaginario due naturaliter passa a un tre e il tre a un quattro. Il cinque, l’etereo cinque, componendosi, non di un uno che completa il quattro, ma di un uno che deborda dal quattro, trascinerebbe il tutto alla confusione, al magma e, conseguentemente, alla necessità di un nuovo inizio. Forse andiamo in analisi non perché si faccia passe dal tre al quattro, nella prospettiva cioè, per lo più immaginaria, e per lo più nemmeno consapevole, dell’acquisizione di una completezza reale che abbia luogo nel luogo di una illusoria perfezione. Forse andiamo in analisi per sperimentare la passe della confusione nella prospettiva di un nuovo inizio. Non soltanto per fare mondo, ma per trapassare la terra.

Qualcosa in noi, un demone capace di disabituare il no, dice: in quel luogo, forse, possiamo attraversare il caos, l’onnivora bocca spalancata, la bocca onnidesiderante dell’esistere, odorare il fuoco della terra, aspirare celate forme, vedere, come vide Wordsworth. Proteo che viene dal mare, sentire il vecchio Tritone che suona il corno inghirlandato, ricevere finalmente quello che diamo, anche là dove ignoriamo di dare o ricevere. Perché insistentemente ci troviamo, anche senza sapere, senza, gustare, senza godere, nel dare e nel ricevere.

Forse. Ma se quel forse, calandosi da cieli e sovracieli, discendendo come luce, trapassando ogni occlusione di demiurghi e arconti, lambendo come pioggia, accarezzando come rugiada, impregnando come dionisiaco gànos, si fa humus, ciò ha luogo a misura dell’entrare, dell’inspirare, dello spirar dentro dell’insetting.

Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo . Il setting si fonda sull’insetting e l’insetting sorge attraverso il setting. Il discorso sull’arte di Heidegger, così come quello sullo spazio, e su spazio e scultura, configura sincronicamente un discorso su setting e insetting. Ciò accade perché un discorso sull’arte si lascia anche leggere come discorso sulla psicoterapia. Il poeta intenziona il luogo, anzi il nonluogo coi suoi défilé di personae, fantasmi, apparizioni. Non diversamente opera lo psicoterapeuta. Opera diversamente il filosofo? Il discorso che porta Heidegger dal tempo allo spazio, originariamente inteso come relativo all’arte e, in particolare, alla scultura, si lascia declinare anche come discorso sull’aria, sul vuoto-forma del setting. Il vuoto è la forma del setting. Quello che Heidegger ha obliato come aria ritorna come spazio. Quello che, attraverso lo spazio ripensato da Heidegger, ritorna come aria, si lascia declinare alla diradata luce dell’insetting.

L’insetting è al tempo stesso la possibilità più propria del setting e quella più disperatamente distante. L’invisibile di un visibile. La sua atopìa. Il nonluogo del luogo. Luogo delle forme sospese, diremmo con Sohravardi. Lo si potrebbe anche definire come il trascendentale del setting, il terzo che è primo, la sintesi a priori di trans e trance, il suo stato estetico. Mamerto direbbe, in luogo di trascendentale, inlocalis: una definizione d’anima. Io dico anche terzo stato. Che è lo stato del sogno, il terzo stato del cervello, altro da quello della veglia e del sonno, nella considerazione che Jouvet pretende di aver rinvenuto già nelle Upanishad. Pretesa innecessaria, dal momento che l’origine è adesso. E anche perché il terzo stato è ubiquitario come la libido di Reich o il trauma della nascita di Rank.



 
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