Essere un padre - Giorgio Antonelli

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Padre Prepadre

(il mio contributo al volume curato da Michele Mezzanotte)






Non c’è soltanto un padre. Un padre là davanti non è tutto il Padre. Ogni un padre rilascia almeno un resto. E con quello il figlio si pone ben presto in relazione. Nei quartieri junghiani quel resto lo si può anche nominare come ombra. Un padre rilascia molta ombra. E il molto rilasciare a lungo andare assomma a una benedizione. Qualche junghiano potrebbe parlare di lato non avvertito di un padre come propulsivo nei confronti dell’anima del figlio. E questo, presumibilmente, malgrado quel padre, malgrado sia il suo meno a occupare tutto lo spazio.

Un padre può variamente deludere un figlio, ma ciò non toglie al figlio di essere un conquistador. Era appunto questo il caso di Freud. Anche in tale prospettiva di un’inconscietà da redimere va inteso il famigerato verso di Wordsworth che vuole il bambino essere padre dell’uomo. Aichorn parlava a ragione, e analogamente, di una attrazione che i figli avvertono per l’immersione nelle passioni dei loro genitori, per la loro equazione nigredica.

Se la funzione paterna consiste nella trasmissione della funzione generativa, tale trasmissione non è qualcosa che debba necessariamente avvenire in piena consapevolezza. Un giorno un giovanissimo Freud scoprì che suo padre era, diciamo prospetticamente, meno di lui. Un sabato di molti anni prima, così raccontò al figlio Jacob Freud, un cristiano incontrato per la strada gli aveva fatto volar via con un colpo il berretto di pelliccia nuovo nel fango. Al colpo il cristiano aveva fatto seguire il grido: “Fatti da parte, ebreo!”. “E tu cosa hai fatto?” chiese allora Freud, sperando in una testimonianza eroica. “Ho raccolto il berretto” fu la risposta. Aveva visto, Freud, in quel racconto,un padre codardo, uno che cede sul proprio desiderio. Scrive il biografo Peter Gay che, in seguito a quel racconto, Freud, sviluppando fantasie di vendetta, si era identificato con quell’Annibale che aveva giurato di vendicare Cartagine malgrado la potenza dei romani. In realtà, all’ombra del racconto paterno, era accaduto molto più di questo.

Scoprire il meno di un padre è pressoché insostenibile per un figlio. Anche Jung aveva dovuto fare la scoperta di unpadre debole, non saldo nella fede. Anche lui, non diversamente da Freud, aveva saputo attraversare suo padre, aveva saputo farne a meno servendosene. Ci sarebbe da chiedere quanto l’edificio della psicologia analitica proceda da quella morte. Viene in mente il passo dell’Odissea in cui si dice che i figli per lo più sono da meno del loro padre. Come può allora la morte di un padre che si è inchinato, un padre che è un meno, un padre debole, costituire l’evento più significativo nella vita del figlio che lo ha colto in flagranza di debolezza, di rinuncia alla propria dimensione desiderante, a quella cupiditas che a Spinoza appariva essere l’essenza dell’umano? Forse perché, provvidenzialmente, lascia al figlio di rialzarsi? Perché, demonicamente, gli consegna un desiderio irrisolto? Perché la partita interrotta o persa non può più continuarla? Perché è diventato un fantasma che esige vendetta?

In altri termini si tratta qui di un inopinato consentire al figlio di riappropriarsi di quegli aspetti mana a suo tempo, da tutto il tempo, proiettati sul proprio padre. Jung lo chiama l’archetipo dell’uomo potente che prende le forme di eroe, capotribù, mago, medico e santo, di signore degli uomini e dello spirito, insomma di amico di Dio.

 
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