Bultmann, Jung e ... - Giorgio Antonelli

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Bultmann, Jung e la doppia vocazione dell'immagine


(in Cerchio di Psicologia Archetipica, 6, Samizdat, Pescara, 2002.)

(Estratto)



«Demitizzazione» si dice in tedesco Entmythologisierung. Il prefisso «ent- » sta a significare il toglimento del mito, ovvero il toglimento dell'immagine. Ci si può legittimamente domandare quali immagini o quali miti siano tolti nella demitizzazione bultmanniana e in cambio di cosa o in direzione di quale luogo.

L'esigenza della demitizzazione, così come è stata formulata da Rudolf Bultmann, riguarda le immagini del Nuovo Testamento e si troverebbe già proposta al suo interno nell'apostolo Paolo e soprattutto nell'evangelista Giovanni. Sostiene Bultmann che la raffigurazione neotestamentaria dell'universo è mitica e, in quanto tale, risulta non più credibile per gli uomini d'oggi, dal momento che per essi la visione mitica è ormai dissolta per sempre. L'immagine mitica del mondo nasconde la vera intenzione del mito che è quella di parlare all'esistenza dell'uomo. In considerazione di ciò occorrerà allora togliere il mito, il velo del mito, per accedere al significato.

L'operazione negativa del demitizzare, dunque, precede quella positiva dell'interpretazione esistenziale. Cosa occorrerà togliere per accedere in questo «luogo di positività», il luogo in cui si decide «senza mediazione» per la propria salvezza? Occorrerà togliere, ad esempio, gli spiriti e i demoni, i miracoli, gli angeli, l'inferno, l'incarnazione, l'ascensione, la resurrezione. Tutto ciò è appunto mediazione e solo ha importanza in quanto rimanda, in virtù della sua intenzionalità, a un nucleo significativo non ulteriormente riducibile e che va svelato. Anche in questo caso le immagini non hanno valore di per sé ma unicamente in quanto rimandano ad altro.

Un altro grande teologo protestante, Dietrich Bonhoeffer, criticò a più riprese la demitizzazione di Bultmann. Stigmatizzò come riduttivismo di stampo liberale la riduzione essenziale operata da Bultmann, affermando che Dio non va pensato a prescindere dal miracolo e che il mito non è veste d'una verità altra, ma rimanda, o meglio, corrisponde alla cosa stessa. E' curioso che nella stessa lunga lettera in cui critica la nozione bonhoefferiana d'una fede senza religione, Jung formuli contro la demitizzazione obiezioni in parte simili a quelle mosse da Bonhoeffer. Così come Bonhoeffer aveva sostenuto che il mito è la cosa stessa, Jung afferma che anche il «credente senza religione» non può fare a meno del mito, che la religione, per così dire, è la cosa stessa.

La nozione di una fede senza religione è considerata poi da Jung quale logica conseguenza della proposta bultmanniana. Non è dunque affatto casuale che nella lettera dove di parla del «senza religione» (religionlos) Jung riesamini la questione dell'esperienza senza immagine. Secondo Jung "siamo in grado di avere una conoscenza immediata soltanto di ciò che è psichico, per quanto possiamo esser sicuri che la nostra esperienza senza immagine sia consistita in un fatto oggettivo - un fatto che, comunque, non potrà mai essere provato." L'uomo moderno può anche cercare con tutte le sue forze di attingere a una esperienza senza immagine, obiettiva in modo assoluto, vale a dire in modo sciolto da ogni contingenza, ma, sottolinea Jung, a meno che non aspiri a diventare un profeta, egli dovrà comunque concludere che, a dispetto della numinosità di quanto ha esperito, si tratterà pur sempre d'una esperienza soggettiva. Esperienze del tipo cosiddetto «senza immagine» appartengono alla natura stessa della psiche, a prescindere dal Dio causativo al quale esse possano essere attribuite.

 
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