Kerouac, Buddismo - Giorgio Antonelli

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Pubblicazioni > Scritti psicoletterari
Recensione a:

Jack Kerouac, Il sogno vuoto dell'universo.
Saggi sul buddhismo

(Milano, Mondadori, 1997)

(in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 42, Liguori, Napoli, 1997)



L’incontro di Kerouac con il buddhismo, che costituisce il tema di questa preziosa raccolta di scritti e di lettere, conferma gli assunti di sopra. Il buddhismo insegna a Kerouac, che ne è a dire il vero un tardivo cultore, il vuoto sotteso ad ogni parola. Una lezione sul silenzio, insomma. Così anche mostra di recepire il buddhismo lo scrittore americano: tutte le creature viventi che si allenano ad ascoltare il Silenzio udranno il Paradiso. Pound lo aveva cercato dalle parti di Confucio e, ad esempio, nella sua rettificazione dei nomi, Kerouac da quelle del buddhismo. Una lezione, questa del silenzio, in armonia con l’arte dell’analisi.

Poiché siamo qui, scrive anche l’autore di On the Road, non possiamo non essere puri. Come dire la sintesi, sub specie orientale, dell’hic et nunc à la Bion (ma anche à la Jung) e della tecnica ferencziana secondo cui l’analisi va condotta come in una dimensione di eternità. Lo psicoanalista senza sapere, senza memoria, senza desiderio di Bion appare una chiara approssimazione, quasi equazione, buddhista della psicoanalisi. Intorno a quell’essere puri orbitano la lezione del facile fluire della vita di marca stoica, il passeggiatore silenzioso di Rousseau che fantastica senza resistenze e i suoi eredi psicodinamici, le associazioni e dissociazioni dell’inconscio secondo Jung, il ritiro di Perls nel vuoto fertile e la lista potrebbe agevolmente continuare.

L’antico detto cinese, citato da Kerouac insieme al verso di Yeats sui migliori che mancano d’ogni convinzione, detto secondo cui chi sa non parla trasla al moderno detto, che sto inventando Io adesso, hic et nunc, molto hic e certamente nunc, secondo cui l’analista che parla non sa. Se Kerouac scrive di stare aspettando la Dorata Eternità, e assicura di non sapere quanto dovrà aspettare, il pensiero va direttamente al nisi Deo concedente di Jung e alla pazienza di Bion.

Che devono fare dunque gli psicoanalisti secondo quest’impossibile Kerouac improbabilmente trasposto sub specie psychoanalytica? Rispondo io per lui e usando una sua immagine: devono fare come i gatti che sbadigliano perché capiscono che non c’è niente da fare. Devono non fare, insomma, il che significa che non devono resistere. Chi resiste all’analisi è l’analista, ovviamente, come sanno bene Ferenczi e Lacan. Buddhismo psicoanalitico. L’analista che non resiste è l’analista che non esiste.

 
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