Hermes e l'hillmanalisi - Giorgio Antonelli

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Hermes e l'hillmanalisi



(in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012)



Estratto

Ci si può lamentare del fatto che Hillman non ci ha parlato di tecnica analitica? Certamente no, rimane però l’altro interrogativo: se nessuno la desecreta, come si apprende l’ars? Cosa intende dire Ferenczi quando equipara a un’analisi terapeutica la cosiddetta analisi didattica, questo spazio ipotetico di apprendimento dell’ars nel quale Adler da subito non ripone alcuna fiducia? Cosa analizza l’aspirante analista al cospetto del suo didatta, l’analista supposto insegnare? Il proprio controtransfert, rispondevano gli ungheresi. Il proprio controtransfert, non l’ars.

Quanto all’insegnamento dei berlinesi, esso inflazionava l’aspirante psicoanalista di teoria. Navigando lungo la linea spirituale di Ferenczi, Lacan ha ripensato l’assoluta Hilflosigkeit dell’aspirante analista, la necessità che questi sprofondi nell’angoscia dell’angoscia, che sperimenti l’assoluto essere inerme. Si può insegnare l’assoluto essere inerme? L’idea che l’ars sia insegnabile correla con un mondo non hermetico di verità, un mondo sottratto all’inganno. Un mondo immaginario di onnipotenti corrispondenze di oggetti e desideri. All’ombra di Hermes sappiamo però che l’origine è inganno. Non è questa forse la lezione dell’inno omerico dedicato al dio? L’origine non è innocente. L’innocenza viene dopo.

L’aspirante analista non deve imparare l’ars, deve sperimentare l’angoscia spingendosi in territorio selvaggio. Lì regna Artemide, lì diventa Atteone: così Giegerich nella sua negativa declinazione dell’anima. Analogamente, se è vero che nella pratica analitica di Ferenczi non si tratta più di tecnica ma di posizione etica, allora occorrerà definire tale posizione come modo di abitare i luoghi. Selvaggio diventa allora l’aspirante analista là dove sa abitare territori selvaggi. Nei territori selvaggi la psicoterapia non è qualcosa che deve essere fatto, è qualcosa che accade.

Cosa apprendono, o sostengono di aver appreso, gli psicoterapeuti dagli psicoterapeuti? Lampl-de Groot scrive di aver imparato da Freud come si evolve l’analisi. Melanie Klein afferma di aver appreso da Ferenczi la realtà dell’inconscio. Gedo ha appreso da Gitelson che un’analisi richiede un ritmo serrato e continuativo di sedute, una riedizione di quello che deve aver appreso anche, ad esempio, Rado dopo essere andato in analisi da Abraham sei giorni alla settimana per due anni. Polster, analogamente, sostiene di aver imparato da Perls la potenza della semplice continuità. Un’ottima indicazione tecnica a saperla incontrare.

Cosa ha imparato Margaret Little dalla mano di Winnicott che le teneva la mano prima di iniziare, propriamente, l’ora di analisi? Che l’ars si apprende con un colpo di mano? La mano c’entra molto ovviamente con l’analisi se Miller, il Commentatore di Lacan, è arrivato ad affermare che gli psicoanalisti avrebbero aspirato a un sapere da non mettere nelle mani di chiunque.  Le mani di Winnicott, ovviamente, non sono le mani di chiunque. E neanche lo sono, di chiunque, quelle di Ferenczi che le precedono. Né, tantomeno, quelle di Freud al tempo in cui le imponeva al paziente ipnotizzato.

Teagete non aveva argomentato diversamente, nell’omonimo nonché pseudoplatonico dialogo, quando riconduceva al contatto con Socrate, alla presenza di Socrate, l’acquisizione di sapere. Presenza che vale anche a prescindere dalla mano. Non per caso Hermes è raffigurato in forma quadrangolare senza mani e senza piedi, dal momento che, per portare a compimento ciò che si propone, non ne ha bisogno.

 
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