“Consolanza filosofica”, in La Psicoanalisi, nr. 49, Astrolabio, Roma.

Estratto




Quello che Lacan dice di Hegel, potremmo anche dirlo della consulenza filosofica. Ignorando cosa sia setting (il setting è perturbante davvero), trattando l’altro alla stregua di ospite, era inevitabile che i consulenti filosofici inciampassero sulla questione della terapia. Se Peter Raabe sostiene che la consulenza filosofica è fatta della stessa sostanza della psicoterapia, altri consulenti lo negano decisamente. Peter Raabe incarna perfettamente, però, un’aspirazione originaria del filosofo là dove sostiene la radicalità del cambiamento cui il consulente filosofico desidera far accedere il cliente. E in cosa consiste tale radicale nuovo inizio? Nel farlo diventare un filosofo. Non soltanto la consulenza filosofica è terapia, deve esserlo. Perché? Perché deve mostrare al mondo la potenza dell’indagine filosofica.

Discorso del padrone, certo, senonché sono di gran lunga più numerosi i consulenti che rifiutano terapeuticità alla consulenza. Entrando in una certa ambiguità, che per molti versi potrebbe anche rivelarsi redentrice, essi non negano che un effetto collaterale della consulenza possa essere terapeutico, soltanto non ritengono di dovervi prestare alcun interesse. Mostrano lo stesso atteggiamento di coloro che, battezzandosi neurofilosofi, ritengono che il sogno sia un insignificante rumore di fondo dell’attività cerebrale. In questo modo un resto che ha nome terapia e che può anche esibire una qualche felicità degli effetti non sembra meritare alcuna indagine pensante. C’è, la felicità dell’effetto terapeutico, ma il consulente opera come se non ci fosse. Si dà, anche lateralmente, come accidente, sovrappiù o plusvalore, ma il consulente non la pensa, se ne disinteressa, la salta a pié pari. Ancora una volta la supera. Shlomit Schuster, ribadendo quella certa tentazione padronale che si nomina nella vocazione al superamento, non esita a parlare di “successo transterapeutico” della consulenza filosofica. Quanto poi alla direzione (non della cura, ovviamente) e, in controtendenza rispetto alle interminabilità o eternità psicoanalitiche, essa apparirà chiara al consultante già dalla prima seduta. Già nella prima seduta, infatti, egli avrà toccato con mano “il potere del pensiero filosofico” .

I consulenti filosofici (e i filosofi) mancano il reale significato del termine “psicoterapia”, ma tant’è: il significato della parola “psicoterapia” gode di una origine poco visibile e resa ancora meno visibile dal rumore di parole delle varie scuole psicologiche. Possiamo certamente guardare con sospetto a una disciplina che abbia come oggetto “la cura dell’anima”, anche se, ovviamente, potremmo partecipare al gioco linguistico del genitivo soggettivo e dire che è l’anima ad avere cura. Tuttavia lo psicoterapeuta non è uno che cura l’anima, lo psicoterapeuta è un servitore dell’anima. Qualcun altro direbbe: un servo della differenza assoluta. A ragione. Perché, in fondo, quale altra definizione se non questa della differenza assoluta appare possibile per l’anima? Il consulente si porta sulla scena quale rappresentante di un resto desiderante della filosofia e lo fa, non senza una certa consequenzialità, perseguendo a procedere da quella incastri perfetti nelle specie riassorbenti di una consolanza filosofica.