Perché Winnicott per lo più non cita Ferenczi? Perché gli psicoanlisti per lo più non riconoscono il proprio debito nei confronti del maestro ungherese?

"Negli ultimi cinquant'anni" ha affermato Cremerius "Ferenczi è diventato per molti autori la miniera a cui attingere materiale per le loro costruzioni nuove, delle quali spesso non era citata la fonte, il che è vergognoso per la tanto decantata onestà della scienza". La maggior parte degli analisti sembra non considerare "né gli esperimenti tecnici né le nuove vie teoriche di Ferenczi che oltrepassano Freud".

A parte la considerazione sull'onestà della scienza (una posizione troppo semplicistica, dal momento che è possibile ipotizzare meccanismi più profondi alla base delle mancate citazioni) desidero verificare l'assunto di Cremerius in relazione alla influenza che Ferenczi ha presumibilmente esercitato su Winnicott. Non intendo qui inoltrarmi in una disamina del concetto di influenza che è arduo da circoscrivere e declinare. Voglio semplicemente riferirmi ad alcuni assunti teorici, che mi sembra i due psicoanalisti condividano, e in particolare affrontare il discorso sul piano di quello che facevano in analisi. In ambedue i casi è possibile rilevare in azione una sorta di "equazione ferencziana" di Winnicott.

Ci si può attendere che un autore come Winnicott, influenzato dalla Klein e da Balint (ambedue pazienti e allievi di Ferenczi), mostri nella propria opera numerose consonanze con lo psicoanalista ungherese. Ma Winnicott non è un autore che ami citare Ferenczi. O, meglio, non è autore che ami citare in genere. Egli era un custode geloso del proprio spazio di originalità, "attento alla propria vulnerabilità", come ha scritto Robert Rodman, curatore del suo epistolario, un sostenitore della tesi secondo cui esisterebbe in ogni individuo una parte inviolabile, incomunicata, sacra, che non vuole essere conosciuta. Un argomento, questo, con cui Winnicott spiegava anche l'odio diffuso nei confronti della psicoanalisi percepita come una sorta di grande violatrice.

In un contributo letto alla British Psycho-Analytical Society il 17 marzo 1954, nel quale Winnicott affronta la metapsicologia della regressione, i punti consonanti con le concezioni a suo tempo intrattenute da Ferenczi sono numerosi e di qualità: l'affidabilità dell'analista (superiore a quella delle persone extra-analisi), la distinzione tra realtà e fantasia (che in Ferenczi diventa anche un criterio che sancisce il termine dell'analisi), il collegarsi della malattia psicotica ad un "fallimento dell'ambiente", fallimento avvenuto in uno stadio precoce dello sviluppo, la ricostruzione in analisi a partire da questo "difetto fondamentale" (nella terminologia di Balint), l'evidenziazione della situazione analitica come situazione nella quale vengono riprodotte le primissime cure materne. Di qui il correlato ferencziano di "benevolenza materna" e quelli winnicottiani di "preoccupazione materna primaria", di "madre sufficientemente buona", di "ambiente sufficientemente buono", cui corrisponde il concetto di "un adattamento sufficientemente buono da parte dell'analista" che produrrebbe "un passaggio dal falso Sé al vero Sé".

Nel novero delle consonanze rientra di diritto anche la problematica della capacità/incapacità di solitudine, che, presa in considerazione da Ferenczi in alcuni passi del Diario Clinico redatto nel 1932 (e in uno di questi connessa all'ipnosi materna e all'ipnosi paterna, ovvero alla "sensazione di non essere amato e di essere detestato" sensazione che "fa sparire il desiderio di vivere, vale a dire di essere riunificato"), viene tematizzata da Winnicott in un suo contributo letto alla Società Psicoanalitica Inglese il 24 luglio 1957 che reca il titolo La capacità di essere solo. Alla base della capacità di essere solo sta quella di essere solo in presenza di una persona. Ovvia e feconda qui l'analogia con la situazione analitica, sviluppata da Ferenczi soprattutto negli ultimi anni. La solitudine implica, comunque la presenza di qualcuno "che viene, in ultima analisi e inconsciamente, equato alla madre".

Ulteriori esempi di consonanze, che potrebbero anche significare influenze, sono stati individuati da vari autori, in particolare, oltre che da Cremerius, da Pierre Sabourin, autore d'una monografia su Ferenczi, e dal già citato Peter Rudnytsky. Sabourin ritiene che la lettura del Diario Clinico di Ferenczi consenta di cogliere una concordanza notevole tra Winnicott e lo psicoanalista ungherese. Il riferimento, tra gli altri, investe l'importanza del gioco, "che offre una mediazione per l'adattamento alle esigenze materne", e la "costituzione del falso Sé". Il falso Sé, scrive Winnicott, si sviluppa "su una base di sottomissione" e "si organizza per tenere a bada il mondo". La sua cifra è quella della reattività a un fallimento dell'ambiente. Si tratta qui, con altri termini, del concetto winnicottiano di pressione ambientale (impingement) e della corrispettiva necessità di reagire da parte del bambino, concetto ampiamente sovrapponibile all'area di pensiero ferencziana.

La nozione, poi, di madre non attendibile, imprevedibile (e la non attendibilità costituisce una riconoscibile cifra del fallimento dell'ambiente) si può legare alla definizione che Ferenczi dà del "traumatico", inteso come ciò che è imprevisto, insondabile, incalcolabile.

Quanto al vero Sé, appare estremamente problematico concettualizzarlo. Masud Khan ha espresso i suoi dubbi circa l'esistenza di un vero Sé e ha denunciato gli estremi di nichilismo e idealismo cui si sono spinti gli antipsichiatri Laing e Cooper nella loro ricerca, definita "mitica" da Khan, "di una personalità (di un Sé) vera e unica". Neanche Winnicott sfuggirebbe alla tendenza di considerare il concetto di Sé alla stregua di "uno stato puro, non conflittuale e idilliaco" . E a ciò potremmo aggiungere che il bambino di Ferenczi è stato anch'esso variamente stigmatizzato dagli psicoanalisti ortodossi come riedizione del bambino asessuale precedente alla rivoluzione freudiana, un bambino, dunque, altrettanto "mitico".

Winnicott ha comunque scritto in merito al modo di manifestarsi del vero Sé. Un esempio di manifestazione del vero Sé, altrimenti nascosto, incomunicato, eppure ricco di impulsi, si può rinvenire nel rifiuto a nutrirsi. Nei casi più comuni, scrive Winnicott "si osserva un certo senso di futilità per una vita che viene sentita falsa e la ricerca costante di una vita sentita come reale, anche se questo dovesse condurre alla morte, ad esempio, per inedia". Il che fa pensare a quel paziente greco di Ferenczi il cui "rigido aggrapparsi alla tecnica della frustrazione" lo spinse a proporre la rinuncia al cibo allo scopo di accelerare l'analisi. Ferenczi intervenne soltanto quando il paziente arrivò a proporre di arrestare anche il respiro.

A parte il caso del paziente greco, che contribuì a far mutare rotta terapeutica allo psicoanalista ungherese (il quale, al pari di Winnicott, era ben disposto ad accettare insegnamenti dai suoi pazienti), prodromi del concetto di "falso Sé" si possono rinvenire soprattutto negli scritti dell'ultimo Ferenczi che sono senza dubbio i suoi più originali e più fecondi di futuri sviluppi. In particolare la distinzione, winnicottiana, tra un vero Sé incomunicabile e un falso Sé che comunica su basi di sudditanza, ovvero senza spontaneità, col mondo esterno (adeguandosi alle richieste genitoriali, accettandone passivamente le bugie e le imposizioni) fa pensare da una parte alla concezione ferencziana della confusione delle lingue e dall'altra alla sua teoria della seduzione traumatica (recuperata da Ferenczi e riportata in auge a dispetto del fatto che Freud l'aveva abbastanza per tempo abbandonata).

Si aggiunga a ciò tutto il mondo di menzogna che ne consegue, nelle forme ad esempio d'una sottomissione all'aggressore per identificazione (Ferenczi dice: introiezione), d'una negazione delle ragioni del proprio vissuto, dei propri bisogni, della propria capacità di percepire la realtà con relativa attribuzione di realtà alla percezione manipolatoria dell'altro.

E' da ravvedere in questa problematica il motivo che portava Ferenczi a ritenere necessaria la comunicazione del proprio vissuto controtransferale al paziente, pratica nella quale Winnicott non gli sarebbe stato da meno e che, adottata tra gli altri da autori come Sullivan e Frieda Fromm-Reichmann, è stata ad esempio tematizzata da Searles. Il fatto è che, come sostiene Winnicott, "il paziente può apprezzare nell'analista solo ciò che egli stesso è capace di sentire" e, se si tratta per lui di apprendere l'odio, occorre che l'analista lo odii. L'ipotesi sottostante è che la madre odii il suo bambino prima che questi possa a sua volta odiarla e prima ancora che possa sapere che sua madre lo odia. Il paziente ha bisogno di odio per odiare e, scrive Winnicott, "non ci si può attendere che uno psicotico in analisi tolleri il suo odio verso l'analista finché l'analista non sarà capace di odiare il paziente" . Nel corso dell'analisi che con lui ebbe la psicoanalista Margaret Little, sulla quale dovrò soffermarmi più avanti, Winnicott ad esempio comunicò alla sua paziente di odiarne la madre: "Io odio veramente sua madre".

Per quanto riguarda Ferenczi, la comunicazione dei propri sentimenti in analisi, ivi compresa la propria aggressività, ha a che vedere con la necessità che il paziente ritorni a nutrire fiducia nella correttezza delle proprie percezioni. E' per questo che egli si pronuncia contro quello che chiama "l'odio inespresso" capace di fissare "più di una cattiva educazione" e lo fa a maggior ragione perché ritiene che la gentilezza del medico sia l'ipocrita maschera dietro cui si nasconde l'odio per il malato.

Come è stato detto da Searles può avvenire, ad esempio, che il paziente psicotico avverta nel terapeuta la presenza di tendenze omicide nei suoi confronti. Elizabeth Severn, ad esempio, la paziente e psicoanalista che Ferenczi chiama "la regina", percepiva in lui la tendenza ad ammazzare o torturare i pazienti. Se, però, non riceve la convalida, a livello cosciente, della propria percezione dal terapeuta "il paziente sarà portato ad allucinare una figura che ha tendenze omicide". Ciò ovviamente ha conseguenze nel senso d'un aggravarsi della frammentazione egoica. L'acting out del paziente costituisce allora una risposta "ai processi inconsci del terapeuta" o "una espressione vicariante di essi".

Nella comunicazione fatta al paziente rientra anche l'ammissione degli errori commessi dall'analista, dal momento che il paziente li percepisce e l'analista non può cambiare le carte in tavola, confondere ulteriormente i linguaggi, con la conseguenza di frammentare il paziente, di minare la sua fiducia, di compromettere il lavoro analitico. Ancora una volta le posizioni di Ferenczi e Winnicott appaiono "consonanti". E ciò vale anche per Searles, ad esempio, per il quale "è buona regola empirica presupporre che quanto più profonda è la confusione del paziente, tanto più acriticamente egli considera onnisciente il suo terapeuta".

Searles cita volentieri a tale riguardo i contributi di Leo Berman (per il quale gli errori "svolgono probabilmente una funzione positiva nel processo terapeutico" il che mette in condizione il paziente di "esperire la realtà di una persona che dedica se stessa al compito di aiutarlo a crescere e che se la cava abbastanza bene nonostante le evidenti difficoltà") e di Ruth Lidz e T. Lidz (per i quali "è possibile che la forza che il terapeuta deve trasmettere al paziente derivi dalla sua integrità, che gli consente di non aver bisogno di essere infallibile") .

Winnicott riteneva che occorresse spiegare gli errori, ovvero utilizzarli a scopo terapeutico. Aveva scoperto infatti che i pazienti (egli non si riferisce nel caso specifico ai pazienti nevrotici, dotati di un "Io intatto") si servono delle carenze dell'analista, si servono del suo errore "presente" alla stregua d'una carenza passata, nei confronti della quale poter esprimere, nel "presente" e alla "presenza" dell'analista, tutta la loro collera. Un errore irrisolto, al contrario, non consente l'espressione della collera, tiene bloccato il processo al pregresso livello di interruzione emozionale, allo stesso modo in cui, potremmo dire, la resistenza interrompe il processo analitico. E qui si può comprendere l'assunto di Lacan secondo il quale la resistenza del paziente è in realtà la resistenza dell'analista.

Ferenczi giunse addirittura al punto di ritenere vantaggioso il commettere "ogni tanto degli errori, per poterli poi riconoscere apertamente". Il problema è che i pazienti, almeno un certo tipo di pazienti "difficili", non contraddicono il loro analista, non lo incolpano dei suoi errori, ma si identificano con l'analista, il quale può essere del tutto inconsapevole della estrema sensibilità (ricettrice in profondo di desideri, simpatie, odii) dei suoi pazienti. Si può ingenerare e mantenere allora un qualcosa di taciuto, di non comunicato, tra paziente e analista, tale da rinforzare nel paziente la distorsione delle sue percezioni (l'analista erra = io erro) e da minare un vissuto di fiducia.

Ferenczi scopre che comunicare al paziente i propri errori, smettere l'abito di quella che chiama "l'ipocrisia professionale", "scioglie la lingua" al paziente, costruisce un ambiente di fiducia. E' appunto tale costruzione della fiducia a consentire al paziente di veder delineato un contrasto (là dove prima c'era confusione) "tra il presente e l'intollerabile passato traumatogeno".

Analogamente, come s'è già visto, s'esprime Winnicott per il quale i fallimenti e gli errori dell'analista costituiscono gli attivatori d'un processo che consente al paziente di venire a capo del fallimento originario dell'ambiente, venire a capo insomma del paradosso in virtù del quale, come mostrerò più avanti, qualcosa che ancora deve essere esperito è comunque già accaduto.

E' su questi aspetti, in particolare, che si sofferma Peter Rudnytsky nella sua breve disamina delle consonanze ferencziane di Winnicott: relazione tra ricordare ed esperire, l'errore dell'analista, il concetto ferencziano di benevolenza materna (a fronte d'un paziente in trance ridivenuto bambino) riformulato come ambiente che tiene in Winnicott.

Il legame che, secondo Rudnytsky, sembra stabilirsi tra Ferenczi e Winnicott non è quello d'una influenza del primo sul secondo, ma d'una riformulazione più metodica operata dal secondo che integra alla teoria psicoanalitica contemporanea i contributi del primo. Così se il concetto ferencziano di benevolenza materna, ovvero dell'atteggiamento materno che l'analista deve assumere nei confronti del paziente profondamente disturbato, sembrò troppo radicale e sospetto ai tempi in cui venne formulato, la riformulazione winnicottiana in termini di "ambiente che tiene" riconferisce allo stesso uno status di accettabilità e anzi di giustezza tali da imporlo all'attenzione degli psicoanalisti d'oggi.