Perché una voce ci giunga possiamo restare in disperata attesa. E possiamo anche morire se non sentiamo una voce. Come suoni, prima che come significati, ci seducono singole parole e una di queste, bellissima, è certamente Weltanschauung. Ci sono parole alle quali Wittgenstein ritornava come stregato. E, del resto, perché Freud gli piaceva anche quando e soprattutto dove egli, il filosofo, non si trovava d'accordo con lui, lo psicoanalista? Cosa ha fatto del resto Freud? Ha impiegato la parola "inconscio". Eppure, continua Wittgenstein, egli non ci parla dell'inconscio. Non ci dice cos'è. Impresa del resto impossibile dal momento che, per dirci cos'è, Freud dovrebbe darci ad intendere che l'inconscio è una sostanza predicabile, che esiste una ontologia dell'inconscio. Invece l'inconscio è aggettivo e l'ontologia è fuori questione.

Ad ogni modo Freud impiega la parola "inconscio" e tanto basta per condannarci alla seduzione dei suoni. Ma una diversa nominazione è in grado di risolvere i problemi, di condurci a nuove aperture? No, evidentemente. Eppure a questo si riduce, per Wittgenstein, l'idea di Freud: nella follia la serratura non viene distrutta, ma solo cambiata. Quando Freud parla di inconscio non sta parlando di qualcosa ma intorno a qualcosa. La cosa intanto se ne rimane là, intatta, e la parola le scivola sopra. Il suo scivolare, tuttavia, non avviene in modo indolore, ci inchioda anzi alla moltiplicazione di problemi fittizi. E' in quest'ottica che Wittgenstein può stabilire un'equivalenza tra l'andare in analisi e il cibarsi all'albero della conoscenza. Cosa ottennero Adamo ed Eva cibandosi all'albero della conoscenza? L'aumento dei problemi etici, non certo la loro soluzione.

Lo stesso può dirsi, secondo Wittgenstein, dell'analisi. Con essa si consegue una conoscenza che pone nuovi problemi e che, nel porli, in nulla contribuisce a risolverli. Cosa intende dire Wittgenstein? Intende forse dire che la conoscenza deve contribuire alla soluzione dei problemi etici? Al contrario, nella sua ottica si tratta semmai di dissolvere i problemi. Ma è proprio questo il nodo allorché si viene alla questione della psicoanalisi come Weltanschauung.

Weltanschauung è una bellissima parola che gli autori di lingua tedesca (tra i quali Freud e Jung) dichiarano pressoché intraducibile e i non tedeschi lasciano volentieri non tradotta, concedendosi di interrompere il flusso del loro dettato perché consapevoli che un equivalente di fatto non esiste.

Un corrispettivo italiano potrebbe essere "visione del mondo", dal momento che, nel composto tedesco, è presente, insieme al sostantivo Welt che significa "mondo", un "vedere a" o, anche, un "vedere su" (anschauen). Preferibile, secondo me, è la traduzione "concezione del mondo", non perché s'approssimi di più al termine tedesco, ma perché in grado di veicolare significati ulteriori, opponendo alla pregnanza dell'originale la promessa d'un non inferiore, non meno ricco raccolto semantico. Il termine "concezione" rimanda intanto al concetto, al Begriff, ovvero all'abbraccio, al prendere, al tenere insieme, e vale "abbraccio del mondo". In quest'accezione avere una concezione del mondo non significa qualcosa di diverso dall'abbracciare il mondo, appunto, dal tenerlo insieme, operando analogamente al modo che, secondo i filosofi dell'antichità, era dell'anima, dell'"anima mundi". Karl Jaspers, nell'introduzione alla sua Psicologia delle visioni del mondo, pubblicata nel 1919, parlava della "filosofia" come animatrice, appunto, del mondo, come datrice di forma, come costruttrice di scale di valori. Solo a tale filosofia, che Jaspers chiama "profetica", spetterebbe propriamente il nome di filosofia.

Affermazione, questa di Jaspers, che intende essere polemica nei confronti dell'atteggiamento "scientista" della psicologia e della sociologia la cui "considerazione dell'universale" viene stigmatizzata come "astratta". Il genitivo contenuto nell'espressione "abbraccio del mondo", ovviamente, va inteso non soltanto come oggettivo (il mondo è abbracciato da noi), ma anche come soggettivo (il mondo ci abbraccia). Anzi, direi che l'abbraccio è un modo costitutivo dell'essere mondo del mondo. L'essere pensato da Jaspers è un "tutto abbracciante" e, del resto, come dice anche Heidegger, il cogliere i concetti presuppone l'essere già anticipatamente afferrati da ciò che i concetti sono deputati a cogliere concettualmente. Se non intendessimo l'espressione "abbraccio del mondo" in questo duplice modo, secondo il gioco di questa circolarità, cadremmo nella seduzione del soggetto (col mondo a recitare il ruolo di oggetto), seduzione nella quale incorse Cartesio, il quale dubitò di tutto, ma mancò di porre in dubbio l'Io. Un "lusso" che, dopo Freud, non possiamo più consentirci.

Ma concezione significa ancora altro, significa "dare nascita a", "dare alla luce", "mettere alla luce". E, allora, avere una concezione del mondo significa qualcosa come partorirlo, farlo nascere, metterlo alla luce. Avere una concezione del mondo significa insomma diventarne letteralmente e propriamente madri. Vale qui l'implicazione dello splendido esordio schopenhaueriano ("Il mondo è una mia rappresentazione"), dove il sostantivo originale, Vorstellung, rimanda a un "porre davanti" e, dunque, ancora, a un "mettere alla luce". Vale anche e soprattutto, in connessione con l'esordio di Schopenhauer, l'adagio di Berkeley che suona "esse est percipi", adagio che possiamo tradurre con la frase "essere significa essere percepito", dove il participio "percepito" può anche acquisire il senso, nell'ottica che stiamo abbracciando o che ci sta abbracciando, di "concepito".

Jung traduceva l'esordio schopenhaueriano con la frase "Il mondo è la mia psicologia". In ragione di ciò ritengo che all'"esse est percipi" di Berkeley possa anche, e forse più propriamente, corrispondere la traduzione "essere significa essere immaginato".

Se il mondo è, come diceva Eraclito, un bambino, ciò avviene perché, prima di venire concepito e abbracciato, è immaginato.

Chi immagina si fa dunque, per ciò stesso, madre del mondo, dal momento che il mondo è un bambino. Se la psicoanalisi è una concezione del mondo, lo è in prima istanza in ragione di questa maternità elettiva, di questa "formatività" nel cui conseguimento e nel cui esercizio gli psicoanalisti non sono forse da meno dei sapienti dell'antica Grecia, dei profeti della religione ebraica, dei filosofi del tramonto e, soprattutto, degli artisti. In un'ottica più ravvicinata al contesto della cura, se con Otto Rank il trattamento analitico si prefigge come scopo la "seconda nascita" del paziente, è perché il terapeuta sa farsi anche madre.

E' da rilevare a tale riguardo che i primi dissidi tra Rank e i freudiani ortodossi furono dovuti in buona misura al fatto che, in occasione delle sue, presumibilmente invidiate, conferenze americane, Rank aveva enfatizzato la maggiore rilevanza psicologica della madre nei confronti del padre. I freudiani ortodossi, soprattutto Ernest Jones, ripagarono Rank con l'accusa di follia (accusa ricorrente che toccò anche, tra gli altri, a Jung, ad Adler, a Ferenczi, a Reich), ma la sua lezione avrebbe esercitato una profonda influenza sui futuri sviluppi del movimento psicoanalitico (si pensi a Melanie Klein, ai kleiniani, a Winnicott etc.).

Ma se il mondo è un bambino, come si conserva? Come permane? Se il mondo è un bambino, la sua permanenza dipende dalla qualità dell'abbraccio che lo tiene. E allora è necessario che l'abbraccio sia forte senza togliere e che contenga dando e donando spazio. Se non è saldo l'abbraccio in cui è contenuto, il bambino prova la terribile e incontenibile sensazione di precipitare nel vuoto, di sperimentare sul corpo ancora non percepito come intero quella condizione esistenziale di dispersione e "gettatezza" di cui hanno parlato gli gnostici molti secoli prima di Heidegger.

Ora, non è affatto casuale che fu proprio Ferenczi (oltre a Rank che lo cita a questo riguardo nel primo capitolo de Il trauma della nascita) a notare un ricorrente episodio di fine seduta che ha una relazione intima col mio racconto. Si tratta d'una sensazione di vertigine che può cogliere il paziente alla fine dell'ora d'analisi.

Rank, coerentemente alla sua ipotesi di base, parlava di distacco dalla madre, di ripetizione del trauma della nascita. Ferenczi, che attribuiva molta importanza alla posizione tenuta dal paziente durante la seduta, aveva dedicato al fenomeno un breve scritto pubblicato nel 1914 col titolo di "Sensazione di vertigine a seduta ultimata". Contributo alla spiegazione dei sintomi somatici psicogeni. Egli riteneva che la libera associazione e il transfert sull'analista fossero dal paziente vissuti in modo così felice da indurlo alla fantasia d'un protrarsi senza soluzione di continuità di quella condizione. Tale movimento interiore si lascia ricondurre alla concezione, intrattenuta da Ferenczi, secondo cui il trattamento analitico dovrebbe aver luogo in una atmosfera d'eternità. L'illusione d'eternità, infatti, rispecchia per Ferenczi l'essenza stessa dell'inconscio. Potrebbe risiedere qui il discorso di Ferenczi sulla menzogna? O meglio il suo essere parlato dalla menzogna? Dalla menzogna della psicoanalisi? Perché non sono certo gli isterici a mentire, essi si trovano per così dire nel mentire, a mentire, come dirà lo stesso Ferenczi (ad esempio nel "Diario Clinico"), sono gli psicoanalisti.

Quando l'ora analitica giunge al termine è come se il paziente si risvegliasse dalla sua illusione, come se si disingannasse scoprendosi non più a casa sua e, ancora, scrive Ferenczi, come se cadesse dalle nuvole. Tale cambiamento di posizione (dall'essere sdraiato all'alzarsi) e di atteggiamento (dall'illusione al disinganno) si traducono allora nel sintomo della vertigine. Un sintomo che Ferenczi considera come postresistenziale, ovvero come un tentativo di erigere nuovamente barriere contro la libertà associativa goduta in seduta, tentativo messo in atto allo scopo, per così dire, di rientrare onorevolmente in società.

Il sintomo scompare quando il paziente si abitua all'inversione di posizione e atteggiamento. Ovvero, direi io, quando si abitua a gestire la cessazione dell'abbraccio goduto durante la seduta analitica, il che avviene in ragione del fatto che ha iniziato a diventare padre e madre di se stesso. Quello di stabilire se e in che modo la psicoanalisi è una visione o concezione del mondo, una Weltanschauung, è uno dei problemi che si è posto alle origini del movimento iniziato da Freud e, anzi, è stato, per così dire, promosso alla ribalta intorno e in seguito alle prime scissioni (di Wilhelm Stekel, di Adler, di Jung).

Ciò appare evidente ad esempio dal carteggio di Freud col pastore protestante Oskar Pfister e Lou Salomé. Freud ha declinato in modo sistematico la questione in Una visione del mondo, lezione nr. 35 della nuova serie di lezioni di introduzione alla psicoanalisi. Quattro anni prima, nel 1928, Jung aveva offerto il proprio contributo in proposito in "Psicologia analitica e concezione del mondo". Ferenczi aveva affrontato la questione già nel 1912 in un intervento dal titolo "Filosofia e Psicoanalisi". La psicoanalisi è una concezione del mondo? In base a quali motivi la si può definire tale? E, soprattutto, quali vantaggi possiamo ricavare dal porci un tale interrogativo e dal ricostruire la storia della questione?