Il Pleroma e l'Anima

Pleroma è il mondo pieno di dèi, l’origine alla quale l’Io da sempre resiste. Deve contrarsi l’Io per sperare di accedere al Pleroma allo stesso modo in cui Dio si è contratto prima del principio perché nel principio si facesse spazio e lo spazio fosse tutto coperto dal Pleroma e, a uno scarto, dal mondo. Deve contrarsi l’Io perché si dispieghi la coscienza. Se l’Io è un confine della coscienza, la contrazione è un moto psicologico e, allo stesso tempo, spirituale. Se Paolo dice che lo psichico non comprende (non sa farsi spazio per) le cose dello spirito, è perché ignora che cosa sia l’Anima. A partire da Paolo il cristianesimo per lo più manca l’Anima. I motivi di tanto mancare sono complessi. Intanto l’Anima è ponte alla trascendenza e nello stesso tempo ponte che sospende la trascendenza. Quella sospensione terrorizza i nostalgici del trascendente non ancora in virtù del loro proiettare, nella sospensione, l’afanisi, la sparizione. L’Anima è il penultimo che dell’ultimo fa sospensione e afanisi. In virtù dell’Anima l’ultimo non è più necessario. E allora la domanda è: come accede il Pleroma, quest’ultimo sospeso e persino afanizzato, ai mondi della carne e del corpo? Come entrano gli déi, gli angeli e i dèmoni, gli arconti e le potestà e tutte le potenze dei cieli e sovracieli nelle dimore degli esseri umani? Come accede all’orizzonte dell’Io quel Serpente (il Figlio per gli gnostici Perati) che, sempre in movimento, lega l’alto alla materia come fosse scala di Giacobbe percorsa da angeli, o Sophia, o Anima mundi? Sono immagini, gli angeli, significanti dell’Anima, vivono di vita propria, in quel dominio altro che i filosofi della luce, i platonici di Persia, concepiscono come mondo autonomo delle forme sospese. Non basta dire che l’Anima non pensa mai senza immagini o che è sempre in movimento. Dove l’Anima è sempre in movimento, mai pensando senza immagini, si fa mondo. Senocrate avrebbe capito Jung sull’impervio discrimine dell’autonomia dell’Anima. L’Anima, dice l’allievo di Platone sulla scia di Talete (come vedremo) e di Pitagora, è un numero che si muove da sé.

Gli dèi discendono e gli esseri umani ascendono. S’incontrano nella sospensione del Serpente, non per sempre, a tratti, in un istante, in un batter d’occhio, non per volontà, non in un abbraccio, ma per gnosi, una gnosi sostanziata da fede. È Gregorio di Nissa, il teologo cappadoce del IV secolo, a offrici il punto di vista cristiano su fede e conoscenza. La fede, scrive, “con la propria certezza ci promette quello che non appare”. È la fede a conoscere veramente, è la fede l’imprescindibile intermediaria per coloro che vanno verso Dio. Gregorio di Nissa sovrappone fede e visione. Visto che è Abramo l’esempio addotto, avrebbe dovuto piuttosto coniugare fede e ascolto. Paolo stesso parla di akoè pìsteos, di ascolto di fede (Gal 3.2), espressione che la traduzione dei vescovi mimetizza in un “aver creduto nella predicazione”. Ma Paolo è anche l’apostolo della visione e del rapimento nel terzo cielo. Si tratta qui allora di un duplice registro: la visione è della gnosi, l’ascolto è della fede.

La fede, sostiene Jung, è un surrogato dell’esperienza. Origene, il grande teologo alessandrino del II-III sec., aveva scritto che credere in Dio e conoscerlo non sono la stessa cosa. Credere e, oltre a credere, conoscere è molto di più del credere soltanto. Io non credo, io so, diceva Jung, quando gli chiesero di pronunciarsi sull’esistenza di Dio. Che Dio e gli dèi esistano, che esistano principati e potestà, arconti e demiurghi, angeli e dèmoni, io lo so, non ho bisogno di crederlo. So che esistono imagines Dei. L’ho visto. Non ho bisogno per questo dell’ascolto della fede.