L’astuzia dell’Anima: peccare per non sapere

L’orgoglio, il peccato per eccellenza della tradizione teologica cristiana, recita un ruolo non indifferente anche nella teologia gnostica. E, però, non è originante l’orgoglio. L’orgoglio è la proiezione di un altro, più originario, peccato, il cui nome è agnosìa, cioè inconsapevolezza, ignoranza, non sapere. A partire dall’agnosìa gli altri peccati valgono altrettante ricostituzioni regressive della Persona. Sono digradanti maschere attraverso le quali, dall’origine, l’agnosìa proietta. È lei il peccato da espiare, la radice di ogni male. E in questo stato non si trova soltanto l’uomo, ma anche il Dio mancante di coscienza. A ridosso di questi assunti Jung chiede al lettore di non scandalizzarsi se la sua esposizione suona come un mito gnostico . Naturalmente, quando si tratta di stabilire quale sia il fattore che genera la proiezione, lo nominiamo nell’Anima, cioè nell’inconscio (nell’agnosìa) in quanto rappresentato dall’Anima.

Se siamo al mondo, tuttavia, è perché dobbiamo fare coscienza. Non so trovare altro senso alla nostra gettatezza. Il significato del fare coscienza è però oscuro e approda, sulla scia degli gnostici, a un paradosso esiziale. Non potrebbe del resto essere altrimenti, se pensiamo che è proprio la personalità conscia dell’Io il luogo nel quale, con Jung, va individuato il nostro punto più oscuro. In ottica archetipica ciò appare perfettamente comprensibile. La personalità conscia dell’Io è una fantasia, un’immagine, una proiezione della sizigia Animus-Anima. Dalla parte dell’Animus emana l’Io. Dalla parte dell’Anima, attraverso l’istinto di riflessione, viene pro-dotta la coscienza. Dalla sizigia Animus-Anima deriva però anche uno degli assunti più paradossali, e inquietanti, della psicologia analitica. Che la coscienza proceda, via riflessione, dall’Anima non toglie che sia la stessa Anima a pro-durre inconscietà, agnosìa. L’Anima pro-duce tanto coscienza quanto inconscietà. E, corrispondentemente, inevitabilmente, angoscia.

Pro-durre inconscietà e angoscia appare una necessità dell’Anima. Svolge qui l’Anima la sua funzione religiosa: fare dell’uomo l’oggetto di un esperimento divino. L’Io è un riflesso, una proiezione dell’inconscietà e, dunque, dell’agnosìa che adombra il tutto. Non sorprende che Jung abbia individuato nella personalità conscia dell’Io il nostro punto più oscuro. Quando Freud afferma che l’Io è la sede dell’angoscia, coglie soltanto l’ultimo episodio di una sequenza archetipica di proiezioni e ricostituzioni regressive. Quello che Freud non vede, e che invece vede Jung, è l’antinomico volto dell’Anima.

All’oscurità dell’Io approda come al suo inferiore vertice il dramma divino di cui si fa questione in Risposta a Giobbe, dramma cui Jung pensa anche sulle orme degli gnostici valentiniani e che il cabalista Luria chiama rottura dei vasi. Qualcosa si scinde dentro la divinità, un eone (Sophia) fuoriesce dal pleroma (l’originaria pienezza) a causa dell’orgoglio che proietta su di lei l’ignoranza nei confronti del Padre. Dalla sua passione, fatta d’ignoranza, dolore, timore e stupore, trae origine la materia. Quando il demiurgo crea il mondo e al mondo accede l’uomo, il dramma divino ha ormai impregnato di sé i cieli e la terra. Per questo ritiene risibile, Jung, l’angoscia provata dall’uomo. È piuttosto l’angoscia a provare l’uomo. L’angoscia, che è prima dell’uomo, lo inchioda a quell’esperimento divino la cui posta in gioco è la ricomposizione dell’originaria scissione. Se Heidegger è arrivato a sostenere che solo un dio può salvare l’uomo, Jung ritiene, al contrario, sulla scia di Luria, che solo l’uomo può salvare Dio.