Schizzi genealogici psicofilosofici

1590

Invenzione della psicologia

Rudolf Göckel (Goclenius) introduce nel linguaggio filosofico il termine psychologia. Oggetto della nuova disciplina è la perfezione dell’essere umano. L’essere umano perfetto è il filius philosophorum, alla cui produzione attesero gli alchimisti, ma anche il medico-filosofo di Ippocrate, l’essere simile al dio secondo il possibile di Platone e medioplatonici, il sapiente degli stoici, il vetero e neotestamentario voi siete come dèi, l’uomo pneumatico nonché oltrecristano degli gnostici e il suo corrispettivo (eretico) medievale uomo spirituale, l’essere uguali agli angeli di cui ha parlato lo gnostico riluttante Clemente Alessandrino, il santo del turno, di cui si fa questione nella letteratura islamica, l’uomo nobile di Eckhart e discepoli, il giusto che approda ai versi di Borges, l’oltreuomo-superuomo di Nietzsche. L’elenco potrebbe infoltirsi non poco, ma qui importa vedere come tutte le fila superominiche si riannodino all’ombra dell’invenzione filosofica di un termine, psicologia, e di un desiderio in cerca di sempre ulteriori, anche immaginarie, incarnazioni. Non ultima la psicoanalisi, almeno nella sua prima, profetica, ispirazione. Invererebbe allora, la psicoanalisi, un desiderio della filosofia. La tradurrebbe, per così dire, in carne? Tradurrebbe sperimentalmente in carne l’oltreuomo? Scinderebbe l’uno in due, come fosse una rediviva, revenant costola d’Adamo? Ma cosa sa del proprio desiderio la filosofia? Cosa desiderano i filosofi? Desiderano trovare la parola liberatrice, salvare il mondo, fare degli altri uomini altrettanti filosofi, farsi ponte per l’oltreuomo, partorire l’Übermensch, trapassare nuvole e generare fulmini? Desiderano dimorare la bebaiotàte arché, il principium firmissimum di Aristotele ricordato anche da Hegel nelle sue lezioni su Eraclito? Desiderano l’inizio radicale, la fondazione assoluta, il fundamentum absolutum inconcussum che ancora Hegel ritiene la filosofia abbia per la prima volta guadagnato con Descartes? Desiderano acquisire quella mathesis universalis che spinse Husserl in direzione della fenomenologia? Entrare in una riflessione radicale in virtù della quale non il mondo abbraccia me, ma Io abbraccio il mondo? Traslare a quell’Io trascendentale che precede il mondo e lo distrugge per ricrearlo? Desiderano farsi pastori dell’essere, starsene nella radura, nella Lichtung, giocare all’oltrepassare, alla Überwindung? Desiderano che la filosofia (ri)diventi sophia? Oppure, dal momento che sono costitutivamente in ritardo sulla sophia (da cui li separa, tenendoli ad essa avvinti, appunto un anelito, un amore), desiderano l’episteme, il vantaggio dell’episteme, o la phronesis, il sapere mobile, il conversare con la contingenza, come direbbe il neopragmatista Rorty o, anche, il duellare con altri filosofi, ucciderli for the moment, procrastinando in questo modo troppo umano il proprio morire? Desiderano essere sapere assoluto, l’assoluta trasparenza dell’origine? Il fatto è che, diciamolo all’origine di questo genealogico racconto, l’origine non c’è, l’origine è adesso. L’origine, potremmo aggiungere, è accidentale, fatta della stessa sostanza dell’anima. Come dirà Derrida, all’alba della sua frequentazione di Freud, è il ritardo che è originario, è l’irriducibilità dell’effetto ritardato, della Nachträglichkeit, a costituire la sua scoperta. Se il ritardo è originario, se l’origine è ritardo, nessuna origine appare per definizione dimorabile, a meno di pensare che lo stesso dimorare/creare spazio faccia origine. Adesso Aristotele sta dicendo che l’anima non pensa mai senza immagine. Adesso Bergson, ricostruendo la storia della metafisica e della psicologia alla luce della storia della memoria, sta dicendo che, per Aristotele, la memoria non appartiene al pensiero, ma all’anima. Dal che adesso deduce che l’anima conosce solo per accidenti, mentre il pensiero conosce per essenze, per relazioni logiche. Adesso Göckel sta inventando la psicologia. E cosa desiderano adesso gli psicoanalisti, cosa gli psicoterapeuti? Cosa, ancora, i consulenti filosofici? Se c’è un significante primordiale, come ritiene Lacan, esso è già un rinvio, una differenza. E, allora, una prima risposta all’interrogativo riguardante il desiderio dell’analista la si trova nell’XI seminario (1964): quello dell’analista è desiderio di ottenere la differenza assoluta. Un modo, questo, di ritradurre il noi possediamo la verità annunciato da Freud a Ferenczi. Dietro il preteso possesso della verità, come dirà Heidegger, c’è la disperazione. Ma i filosofi, aggiunge, non parlano delle disperazioni da cui sono perseguitati, quelle stesse che presiedono al fare analitico, senza che per questo gli analisti siano meno disperati o meno desideranti e meno desideranti senso. Husserl ha parlato dei filosofi come dei funzionari dell’umanità, io parlo degli psicoterapeuti come dei servitori della psiche. In questo modo ritengo si possa intendere/intenzionare la differenza assoluta.

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1641

L’immaginazione di Descartes

“Considero inoltre” scrive Descartes nelle Meditazioni Metafisiche “che questa facoltà di immaginare che è in me, in quanto differisce dalla facoltà di concepire, non è in alcun modo necessaria all’essenza di me stesso, cioè all’essenza della mia mente, perché se anche ne fossi privo, non vi è alcun dubbio che io rimarrei nondimeno quello stesso che sono ora”. Attorno a questo disprivilegio dell’immaginazione si declina il reale retroscena di quel momento cartesiano di cui parla Foucault in relazione (oppositiva) alla questione della cura di sé. A sostenere il retroscena si erge l’equazione cristiana e, prima ancora, stoica. Agostino, ad esempio, non diversamente dal filosofo stoico Crisippo, faceva dell’immaginazione qualcosa di vuoto. L’imaginatio di Agostino è fallax, inanis, perversa, phantastica, superstitiosa, vacua, vana. Marco Aurelio ordinava di cancellarla. Epitteto concepiva il vero atleta come quello che si esercita contro le immaginazioni. Perché questa equazione anti-immaginazione dello stoicismo che ha successivamente improntato di sé l’eone cristiano? Presumibilmente perché l’immaginazione non è in potere, non soggiace a controllo, non dipende da. Il momento cartesiano sembra essere molto di più di quello che ne ha detto Foucault. Ad esso (al prevalere del conosci te stesso sulla cura di sé), nonché al disprivilegio dell’immaginazione, si lega l’argomentazione svolta da Descartes sulla follia nella prima meditazione. Scrive Descartes: “Con quale argomento si potrebbe negare che queste stesse mani e tutto questo corpo sono miei? A meno forse di considerarmi uguale a uno di quei tali dissennati, il cui cervello è così sconvolto dal persistente vapore di una nera bile, che sostengono continuamente di essere re, mentre sono dei miserabili, o di essere vestiti di porpora, mentre sono nudi, o di avere la testa di coccio, o di essere interamente delle zucche, o fatti di vetro; ma costoro sono dementi, e io sembrerei non meno demente, se in qualcosa mi regolassi sul loro esempio”. Appare significativo che, all’esordio delle sue Meditazioni, Descartes avverta la necessità di liquidare la follia. Così come avverte la necessità di liquidare l’immaginazione. Le due liquidazioni si implicano e caratterizzano il momento cartesiano, cioè il suo scarto dalla cura di sé. Appare altrettanto significativo che la liquidazione della follia si leghi alla diade Dio ingannatore/genio maligno. Un argomento, questo, che rimonta in ultima anabasi (ma quale anabasi può dirsi ultima?) a Platone. Il quale afferma, ne La Repubblica, che la divinità non inganna con le immaginazioni. Non inganna, ergo inganna. Non c’è nulla di più disesistente, una volta che Freud è entrato in scena a dirci di come nell’inconscio venga (non) contemplato il non, di quel non, appunto. Non si tratta dunque soltanto di Dio, ma dell’immaginazione, del Dio che fece le immaginazioni, secondo quanto recita Zaccaria 10.1 nella ispirata traduzione della Septuaginta. Si domandano Platone e Descartes perché la divinità dovrebbe ingannarci? Si domandano perché dovrebbe farlo ricorrendo al medium dell’immaginazione? Si domandano, infine, dove conduca la presa in carico dell’inganno di Dio? Se Dio inganna attraverso l’immaginazione, ciò non accade anche perché è attraverso essa che Egli può esistere per l'uomo? Va sottolineato il lessico impiegato da Descartes. Parla di dementi, Descartes, e sembra adottare un tono non diverso da quello che anche Freud avrebbe adottato parlando dei suoi pazienti come di Gesindel, gentaglia. Va infine ribadito che alle fondamenta della messa al bando dell’immaginazione si colloca, con forza, il lascito cristiano. Quando Descartes e Freud prescrivono, mettono al bando, esiliano, l’immaginazione, quasi fossero dei redivivi Tertulliani, stanno facendo cristianesimo. Nonostante tutte le apparenze e i presunti, e anche pretesi rovesciamenti, Freud ripete Descartes, ripete Agostino, ripete il cristianesimo. Se Descartes non ha compiuto il passo in direzione della fenomenologia, come gli rimprovera Husserl, ciò non avviene forse in virtù del suo atteggiamento disprivilegiante dell’immaginazione? Freud ripete Descartes, ma Freud non è la psicologia del profondo. Così come uno scarto si è consumato tra Montaigne e Descartes, uno scarto altro si è consumato tra Freud e Jung sulla questione dell’immaginazione. Ciò che rimane innominato in Freud diventa tèchne in Jung, diventa immaginazione attiva. Lo stesso motivo per il quale Descartes non compie il passo in direzione della fenomenologia diventa, rovesciato, l’immaginazione attiva di Jung, diventa la già nominata volontaria sospensione dell’incredulità di Coleridge. È la pratica, la tèchne, l’àskesis dell’immaginazione a rendere lo psicologo naturaliter fenomenologo.

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1674

Spinoza e l’anima

Ugo Boxel inizia una corrispondenza con Spinoza richiedendone il parere intorno alle apparizioni, agli spettri o spiriti. Spinoza replica con una controsollecitazione che relega all’invisibile, al non percepibile la questione: “Che cosa sono questi spettri o spiriti?” chiede il filosofo “Sono essi bambini, incoscienti o pazzi?” Interrogativo, questo, dalla chiara ascendenza cartesiana. Boxel si fa forte della tradizione demonologica per confortare la propria credenza negli spiriti e contesta Spinoza: “Non è lecito negare ciò che non si percepisce. L’anima, essendo spirito e incorporea, non può agire se non coi corpi più sottili, ossia con i fluidi. E quale rapporto vi è tra il corpo e l’anima? In che modo l’anima agisce col corpo? Infatti, senza di questo essa riposa; e quando questo è turbato l’anima fa il contrario di quel che deve fare. Mostratemi come questo avviene. Voi non lo potete, come non lo posso io, e tuttavia noi vediamo e sentiamo che l’anima agisce, il che resta vero, anche se noi non comprendiamo come tale operazione si compia”. La posizione di Spinoza richiama quella di Crisippo quando definiva l’immaginazione diàkenos helkysmós, una vuota attrazione, vuota come una battaglia di ombre, vuota perché si produce nell’anima senza che vi sia alcun oggetto reale, alcuna res, a produrla. E, ripetono, Crisippo e Spinoza (e Descartes), la posizione cristiana che, in tema di immaginazione, è imperante. Il recupero dell’immaginazione è in parte sotterraneo (alchimia), in parte letterario/filosofico (i romantici e i filosofi idealisti), in parte (decisiva) psicologico (non Freud, ma Jung). Jung parlerebbe dello scarto tra realtà come Realität e realtà come Wirklichkeit (ciò che ha un effetto su di noi, a prescindere dal suo essere res). In modo comparabile a Jung, e con largo anticipo su di lui, Husserl aveva scritto nella quinta delle Ricerche Logiche che vi può essere nella coscienza un vissuto senza che l’oggetto esista e cioè: “intendere l’oggetto è un vissuto, ma l’oggetto stesso può essere meramente presunto e in realtà non sussistere affatto”. A una delle origini della Wirklichkeit di Jung si colloca l’ascesi fenomenologica, vale a dire l’esercizio mortale del sospendere la Realität. Analogamente, in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913), Husserl scrive che alla coscienza assoluta, trascendentalmente pura, è assurdo attribuire un carattere di Realität. L’afferramento intuitivo di un’essenza non implica affatto la posizione di una qualunque esistenza individuale. “Se per un miracolo psicologico” scrive Husserl “la libera finzione dovesse condurci a immaginare cose di specie assolutamente nuova, per esempio dati sensibili che non si sono presentati né potranno mai presentarsi in nessuna esperienza, non per questo sarebbe alterata la datità originaria dell’essenza corrispondente: anche se i dati immaginari non sono e non saranno mai dati reali”. L’epoché di Husserl sospende insomma le res costituenti quella che Jung nomina come Realität e che egli contrappone alla Wirklichkeit. In altri termini non c’è, non si fa psicoterapia senza sospensione. Non si fa psicoterapia senza sospensione di Realität. Si tratta qui di un movimento contro natura e, anche, di quel punto debole della natura umana denunciato da Kant e ricordato da Heidegger nel corso tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1929-1930. Il punto debole è fatto della stessa sostanza dell’abitudine denunciata da Coleridge e Ferenczi e coincide, dice Heidegger, con la naturale comodità in forza della quale l’intelletto si ribella alla trasformazione. E, però, ciò di cui tratta la filosofia, dice Heidegger, “si dischiude in generale solamente a partire da una trasformazione dell’esserci”. In questa trasformazione dell’esserci ne va di una richiesta insostenibile per l’uomo, la richiesta che il rapporto con la morte divenga una condizione permanente. Analogamente, fare coscienza costituisce per Jung un processo aristocratico e, appunto, contro natura. In tale contronaturalità del fare coscienza è da ravvisare encore una profonda comunanza tra psicologia analitica e fenomenologia. Nell’introduzione alle Ricerche Logiche Husserl l’aveva scritto in modo inequivocabile: “l’analisi fenomenologica esige un orientamento innaturale del pensiero e dell’intuizione”. Spinoza pone fine al suo confronto con Boxel con le seguenti, liquidatorie parole: “Infine, egregio signore, io mi sono dilungato anche più di quanto non volessi, e non intendo annoiarvi oltre su cose che, so bene, non ammetterete, poiché seguite dei principi troppo diversi dai miei”. Si potrebbe dire che in questo caso, per usare il presocratico detto di Jung, Spinoza non è diventato ciò che accade nel mezzo. Siamo in altri termini tutti, costitutivamente, servi(tori) di un resto. Anche quando, da immaginari padroni, non tolleriamo di conversare oltre col servo reale di turno. Nel caso di Spinoza, il reale servo di turno, quello che gli oppone resistenza, non ha idee adeguate. Nell’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, pubblicata postuma nel 1677, anche di questo si tratta, del fatto che la volontà e l’intelletto sono una medesima cosa. Se la mente umana avesse soltanto idee adeguate, scrive Spinoza, “non formerebbe nessuna azione di male.” Siamo qui a una sintesi di posizioni che potrebbero tracciare la loro direzione da Socrate e Crisippo alla psicoterapia cognitivista e alle pratiche filosofiche. Se Spinoza fosse un consulente filosofico provvederebbe a che i suoi consultanti si formino idee adeguate allo scopo di scoprire il miglio modo di vivere. Schopenhauer avrebbe annoverato Descartes e Spinoza tra i sostenitori di quella teoria, a chiara equazione socratica, secondo cui l’uomo è ciò che è in virtù della conoscenza. Foucault parlerebbe qui di momento cartesiano. Momento al quale appartiene di diritto Kant secondo il quale la mente ha il potere di vincere i sentimenti morbosi per mezzo della sola volontà. Laddove, tra Montaigne e Descartes, Foucault ha individuato uno scarto, tra Descartes e Kant vige un regime di continuità. Descartes e Kant rappresentano due momenti fondamentali di una liquidazione: “la liquidazione di quella che potremmo definire la condizione di spiritualità per aver accesso alla verità”. Quella liquidazione però non può non lasciare dietro di sé una scia, un resto. Ed è in quel resto che, senza necessariamente saperne nulla, incurante di Descartes e Kant, necessariamente andrà a nascere, vorrà essere inventata, trovata la psicoanalisi. La sola volontà di Kant non basta alla nascita della psicoanalisi. In questo non bastare di Kant ne va della sua mancata comprensione di Hume (rimproveratagli da Husserl), diciamo anche dell’egologia di Hume, aerea e promettente infinito, cioè emozione e coscienza. Un tutto il mondo (l’emozione) che abita un tutto nulla e fertile (la coscienza). Prima di Schopenhauer era stato Hume a negare che la ragione possa essere pratica, capace cioè di guidare, di determinare la volontà. Le prescrizioni non procedono dalle descrizioni. Nel portarsi in questo modo in un’altra scena del pensiero Hume e Schopenhauer ci si offrono quali reali precursori dell’invenzione, del ritrovamento, di Freud.

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1981

Nascita della consulenza filosofica e dei suoi ospiti

Nasce, in Germania, la consulenza filosofica a opera di Achenbach. La pratica filosofica, avrebbe sostenuto l’achenbachiana Shlomit Schuster, “è allo stesso tempo psicoanalisi e critica della psicoterapia.” L’autrice trova anche analogie tra la pratica filosofica di Achenbach e gli approcci di Buber e dello psicoterapeuta filosofico Rogers. La terapia psicoanalitica, ritiene Achenbach, appartiene all’epoca, giunta al suo termine, del controllo dell’anima. La psicoanalisi non affascina più, non funziona più. Quanto alla filosofia si tratta, per Achenbach, di spostare “l’attenzione del filosofo dalle teorie del fondamento alla sfera della vita buona, della vita riuscita”. Una svolta, questa, preparata da Pierre Hadot ne La filosofia come modo di vivere, pubblicato nello stesso anno. Un altro testo di Hadot, molto citato dai consulenti filosofici, viene pubblicato nel 1988 col titolo Esercizi spirituali e filosofia antica. L’ascesi cristiana è la prosecuzione dell’àskesis dei filosofi greci e romani (Socrate, Platone, Stoici, Epicurei, Scettici, Epitteto, Marco Aurelio), comprendente diverse pratiche autoosservative, autoanalitiche, di cura del sé e di un, come lo chiamo, morire prima di morire, una conditio sine qua non del fare terapia. E si tratta di un costrutto, l’àskesis degli antichi filosofi, al quale normalmente si richiamano le pratiche filosofiche. Impronta prima di ogni filosofica àskesis, si potrebbe dire, da Platone a Cicerone, da Montaigne a Heidegger è, come s’è detto, l’essere verso la morte, l’equazione filosofare=morire. Non casualmente, tra gli esercizi spirituali della filosofia antica, figura quello di simulare il giorno della propria morte. Quanto all’equazione cristiana è sufficiente rivolgersi alla definizione di gnosi che troviamo in Clemente Alessandrino, gnosi come morte razionale. Occorreranno sei anni perché Achenbach pubblichi il testo archetipo della consulenza filosofica Philosophische Praxis. La consulenza filosofica si definisce come libero dialogo, come sbalordimento prodotto nel dialogo, concepisce l’uomo come costituzionalmente filosofante, stigmatizza la terapia come pratica che sottostà alla costrizione di rendere l’individuo un paziente. Il paziente della psicoanalisi, già variamente rinominato cliente, analizzato, analizzante, diventa qui l’ospite. Modelli nobili della consulenza, a suo tempo indicati da Jaspers in opposizione a Freud, Adler e Jung, sono Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche i quali, in un linguaggio semplice e vitale, hanno sviluppato l’arte del dialogo con se stessi. Con Epicuro anche Achenbach potrebbe affermare che è vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesce a guarire alcuna sofferenza dell’uomo. Perché, però, Achenbach parla di ospite? Perché l’ospite non è un padrone?